Questa è una storia politica. Così politica, nel senso più alto del termine, che dovrebbe interessare tutti. Nessuno escluso.
Tutto parte dalla società Cambridge Analytica e dal suo lavoro di "consulenza" per la campagna elettorale di Donald Trump, basato sull’uso improprio dei dati personali di 50 milioni di persone. Parte da lì, ma va ben aldilà e coinvolge così pesantemente Facebook da avere provocato ieri, a Wall Street, un tonfo del titolo della società di Zuckerberg.
Non è la prima volta che il social più frequentato del mondo finisce sotto accusa per essere stato usato come arma politica, per di più in maniera impropria e fraudolenta. Ma stavolta la vicenda è più grave, non si tratta "solo" dell’accusa di essere stato, Facebook, un megafono delle fake news su Hillary Clinton, create in Russia per favorire Trump. Questa storia infatti ci (ri)svela in maniera drammatica un fatto che troppo spesso facciamo finta di non vedere. E cioè che i nostri dati più sensibili – quella che definiamo privacy – sono sempre più sotto attacco. Merce preziosa di scambio che viene usata anche per manipolare le nostre vite o quelle di nostri amici ignari e per orientare politicamente gli indecisi. Anche in Italia dove nessuno sembra avere commesso illeciti simili, buona parte dei voti degli elettori indecisi sembra siano stati orientati in larga parte dai social.
Ciò che appare più grave, in questa storia politica americana, è che l’illecito si è diffuso a macchia d’olio perché una parte significativa di utenti ha accettato di partecipare dietro compenso a uno "studio". E facendolo ha "venduto" anche i propri amici. Ogni volta infatti che uno di noi accetta con leggerezza di usare un servizio web, un’app gratuita per smartphone (non tutte, ma molte) o un programma per pc in cambio della cessione di dati che riteniamo (sbagliando) poco importanti non sta cedendo solo la sua privacy, ma anche quella di tutta la sua rete di amici. Tutto ciò che facciamo "online" infatti lascia una traccia. E nonostante divieti e leggi i nostri dati viaggiano. Spesso con la nostra distratta complicità e grazie anche alla faciloneria con la quale accettiamo i termini d’uso (dei social o di app, poco importa) senza leggerne nemmeno una riga. Tanto, ci ripetiamo come un mantra giustificatorio, non abbiamo niente da nascondere. Salvo poi spaventarci e protestare (ed è appena il grado zero dell’uso dei dati per profilarci…) se ci spuntano davanti pubblicità legate a ciò che abbiamo ricercato poco prima su Google o Amazon o di cui abbiamo "parlato" sui social.
Il problema qui, lo ripetiamo, non è solo Trump e la sua elezione, quanto l’intero sistema che regola l’impressionante mole di dati che ogni giorno lasciamo in Rete.
Ed è un sistema potentissimo, per di più concentrato nelle mani di pochissime aziende che sanno ormai così tanto di noi da potere arrivare nel giro di qualche anno a prevedere perfino i nostri bisogni un minuto prima che ci vengano in mente. Possiamo continuare a fare finta di niente (solito refrain: tanto non ho nulla da nascondere), ma in un mondo dove persino gli oggetti attorno a noi saranno sempre più connessi in Rete e si scambieranno dati, senza un rigoroso rispetto della privacy e un rigoroso obbligo di trasparenza il sistema è destinato a travolgerci. A fagocitare le nostre vite, i nostri pensieri, i nostri desideri e le nostre scelte per poi restituircene di nuovi capaci di orientarci verso scelte e idee preconfezionate decise da manovratori-manipolatori. Questa storia è politica anche per due altre ragioni.
La prima è che senza un whistleblower, cioè una persona che ha deciso di denunciare pubblicamente un’attività illecita, non avremmo nessuna prova di quanto accaduto. Il secondo: senza il coraggio di alcuni giornalisti non sapremmo niente. Per questo ha ragione la Columbia Journalism Review che ieri scriveva: «Oggi più che mai il sistema digitale ha bisogno di cani da guardia, cioè di giornalisti'. Anche solo per ricordarci che quando su Internet usiamo qualcosa gratis è perché il prezzo siamo noi.
fonte avvenire.it