Il confronto tra Hilary Clinton e Donald Trump verso le elezioni presidenziali statunitensi. Di Giacomo Buoncompagni*
L' ultima campagna elettorale americana ce lo dimostra, abbiamo due ricchi e potenti candidati, due grandi comunicatori: un grande amante di torri e casinò, Donald, e una grande “innamorata di poltrone”, Hilary. L’attore Clint Eastwood ha ammesso pochi giorni fa, di «essere stufo del politicamente corretto», facendo da lontano l’occhiolino al candidato Trump.
Ma… Come dargli torto? Hilary, con grande stile ed eleganza, per non offendere nessuno ed evitare attacchi mediatici, struttura il suo discorso in maniera sempre troppo generale (il classico copione «più lavoro e meno tasse») goffa, chiusa, inespressiva, non trapela emozione dalle sue parole, né rabbia, né tristezza, né gioia, fredda nel corpo e nel linguaggio.
Trump, esattamente l’opposto: diretto, sintetico, sgarbato, scontroso, gestualità incontrollata, uno showman; anche lui si, utilizza più o meno lo stesso copione, abbandonando però, tutti i tecnicismi linguistici. Entrambe miliardari, potenti per ragioni storiche e familiari, entrambe vogliosi di potere.
E allora dove sta il problema? Quale connessione c’è tra linguaggio, potere e cittadino? «Non conta quello che dici, ma come lo dici», una “ricetta della nonna” che oggi riacquista un grande valore simbolico, politico-comunicativo. Quello che Trump afferma può essere condivisibile o meno, ma la sua rabbia, i suoi gesti esagerati, le pause , quegli occhi furbi e socchiusi, quasi sonnolenti mentre parla, quel ciuffo giallo limone, il suo ghigno a fine dibattito, quell’indice puntato in alto come se rimproverasse suo figlio, ma soprattutto quel linguaggio “sporco”, fatto di insulti e parolacce, a volte discriminatorio, che rompe gli schemi di qualsiasi altro candidato presidente nella storia americana, quasi comunicano “verità”, “soluzioni”, “cambiamento”e.. Vittoria.
In una parola: funziona, perché coinvolge e tocca emotivamente quell’elettore oggi sfiduciato, rinchiuso nel suo “macro-ambiente virtuale” dove cerca di rifarsi amici e un’identità persa nella sua “vita sociale precedente”. Non perché sia giusto essere maleducati , razzisti, scontrosi, no, non è questo attenzione…
Oggi c’è bisogno di verità, o meglio di percepire “un senso di verità”. Quello che interessa sentire oggi in un dibattito pubblico, è la verità, sì, ma con un linguaggio aggressivo e semplice che crea immediatamente quell’empatia vincente, quel “link-emotivo” che “connette” elettore e politico.
Capite ora dove sta il potere? Ma questa verità dov’è? Il candidato manipola così l’elettore? Empatia e comunicazione persuasiva sono concetti base che troviamo in qualsiasi manuale accademico di comunicazione e psicologia politica, un discorso ormai apparentemente vecchio e superato, perché tutti conosciamo la teoria, ma vedete.. La pratica è un’altra storia.
La verità, l’azione e il programma politico vengono considerate in un secondo momento, prima devono essere sfiorate, assaporate dall’elettore anche con mezzi linguistici “pungenti”. Non perché l’elettore sia stupido ma perché è oggi un individuo stanco, distratto, sfiduciato, circondato da potenti e ciarlatani, da Pokemon e da IPhone, ha bisogno di essere compreso e “coccolato” , vuole la verità ma questa prima, deve essergli comunicata.
Verità comunicata, con un linguaggio che abbatta tutti gli schemi del “politicamente corretto” e del “rispetto tutti così ne esco pulito”, altrimenti di questa non ne percepisce nemmeno l’odore. Sembra che la voglia di potere possa essere oggi palesata, ammessa, a patto che si provi a descrivere la realtà per quella che è , anche “mandando tutti al diavolo” e l’esperienza dei nuovi partiti politici italiani ne è un esempio.
E l’educazione? Educazione, etica, giustizia sono temi profondi che da filosofici necessitano di essere trasformarti in temi sociali anzi in “fatti sociali”. Certo, devono continuare ad essere presenti e devono essere rafforzati all’interno della società anche con l’aiuto dei nuovi media digitali e con l’aiuto della politica, ma cambiamo prima il modo di comunicare, provando ad accettare anche nuovi schemi. È necessario ripulire le menti e ricostruire quelle relazioni perse per ri-costruire società fondate sulla cooperazione e comprensione dell’Altro, provando anche a ridimensionare il potere con strumenti linguistici un poco più “sporchi” ma non troppo, senza rischiare di impoverire la cultura.
*Laureato in comunicazione pubblica e specializzato in linguaggio non verbale, analisi dei media e scienze criminologiche con un master in criminologia investigativa. Sta conseguendo un secondo master in cyber security e collabora con la cattedra di sociologia presso l'Università di Macerata. È docente di "comunicazione e crimine" presso la Libera Università di Ancona e autore del libro "Il ruolo della comunicazione nell'investigazione" (Gruppo Editoriale L'Espresso) e "Comunicazione criminologica. Processi comunicativi e relazionali nelle scienze criminologiche."
(Aiart Marche)