Con un paradosso delle visibilità stiamo facendo i conti tutti noi, di questi tempi.
Succede infatti che sia i media classici, sia i social media conferiscano una gigantesca visibilità a persone, fatti, organizzazioni deplorevoli. Anzi: più le persone sono orribili e i fatti sono atroci e spaventosi, più ampiamente vengono ripresi, rappresentati, raccontati, commentati, in un turbine tossico e senza fine. Tutto ciò ci appare giustificato: lo sdegno, la condanna, lo stigma e la narrazione infinita dell’orrore sono legittimi, doverosi e virtuosi, no?
Eppure.
Eppure l’automatismo mediatico, ben noto a chiunque legga giornali, guardi la tv o navighi in rete, per il quale ogni orrore viene amplificato a dismisura genera, appunto, un paradosso della visibilità di cui ormai è diventato urgente e necessario rendersi conto. E da cui varrebbe la pena di uscire.
Vediamo nel dettaglio come funziona ‘sta cosa.
RAFFORZARE DENUNCIANDO. Diamo per scontato che tutti quanti agiscano in buona fede: vogliono e devono denunciare ampiamente e con la maggior forza possibile fenomeni o individui oggettivamente ripugnanti. Ma, così facendo, involontariamente potenziano (e, potenziando, per certi versi celebrano) il fenomeno o l’individuo che intendono condannare, conferendogli una visibilità che supera l’ambito della notizia in sé e si espande come un fungo nucleare rafforzando, nei fatti, proprio ciò che si voleva censurare. E scatenando, come acutamente segnala Beppe Severgnini, reali rischi di emulazione.
Rischiamo di diventare l’ufficio-propaganda dei nuovi mostri e di fornire il libretto d’istruzioni ai futuri assassini, scrive Severgnini. Tutti, sui giornali, in tv, sui siti e sui social media dobbiamo imparare a pesare le parole. E, aggiungo, bisognerebbe imparare anche a limitare e a filtrare le immagini, che poi se ne vanno in giro nude e crude per la rete e, prive di commento, nella migliore delle ipotesi rischiano di scatenare fenomeni di curiosità morbosa e di incistarsi nel sistema cognitivo delle persone. E, nella peggiore delle ipotesi, finiscono per glorificare, per il solo fatto di moltiplicarne la memorabilità, quanto o chi vorrebbero denunciare o condannare.
Il paradosso della visibilità, con ciò che si vede, funziona al massimo.
PREZIOSA VISIBILITÀ. L’emulazione è un rischio concreto, ma non è l’unico. Nel sistema dei media contemporaneo la visibilità in se stessa è desiderata, perseguita e valorizzata. Ma, proprio perché è così preziosa e desiderabile, può comunque configurarsi come un premio, una conferma, una ricompensa o un attestato di rilievo e successo, a prescindere dalla qualità dei motivi per cui la visibilità medesima è stata conferita. C’è davvero da starci attenti. Bisogna continuare a dare le notizie, evitando però di fare dei terroristi degli “eroi”, dice Jean-Marie Colombani, storico direttore di Le Monde.
PUNIZIONI E PREMI. Ed eccoci a un ulteriore aspetto del paradosso della visibilità. Le notizie orribili e i comportamenti pessimi e criminali ottengono di norma sui media uno spazio enormemente superiore a quello riservato a notizie e comportamenti virtuosi (ne ho parlato anche qui. E qui. E qui). Così, succede che nei fatti i media puniscano chi andrebbe premiato, tacendone o sottovalutandone l’azione, proprio mentre premiano in termini di visibilità chi andrebbe punito e condannato. L’odio si muove più in fretta delle buone notizie, dice l’antropologo Arjun Appadurai, recentemente intervistato dalla Lettura del Corriere della Sera. E aggiunge: la sfida dei professionisti della comunicazione è produrre informazione sul progresso e la giustizia, sperando che arrivi lontano quanto quella che sparge rabbia, frustrazione e invidia.
LA SCELTA DI LE MONDE. Il quotidiano francese il 27 luglio pubblica un editoriale del direttore Jérôme Fenoglio, che parla della necessità di una presa di coscienza da parte dei social media, e annuncia che non pubblicherà più immagini di terroristi per evitare ogni tipo di “glorificazione postuma”. Altri media (giornali, radio, tv) seguiranno la stessa linea.
Era ora che qualcuno arrivasse a fare questa scelta: informare significa anche gestire le informazioni secondo criteri di rilievo e di responsabilità. Ogni giornalista è tenuto a dare le notizie rilevanti, ma è responsabile del modo in cui le dà, e di tutte le implicazioni possibili del modo in cui sceglie di darle.
NORME DI COMPORTAMENTO. Raccontare e documentare i fatti, spiegarli, commentarli se serve, ma senza generare sovraesposizione. E stare molto attenti alle immagini. Sembrano norme di comportamento semplici da seguire, ma per riuscirci davvero ci vogliono professionalità, competenza, misura, senso di responsabilità, idee chiarissime e la capacità di resistere alla tentazione di acchiappare pubblico a ogni costo, cavalcando l’onda emozionale. Già che ci sono, vi ricordo che il paradosso della visibilità, che trasforma denuncia e della condanna in premio, fino ad arrivare a configurarsi come propaganda intensiva o pubblicità gratuita, non riguarda solo le notizie sui fatti tragici del terrorismo.
Potete immaginare che vedere e ascoltare i discorsi privati di uno come Zuckerberg faccia gola a molti, e il rischio di attacchi è quindi molto reale. Talmente reale che il boss di Facebook ha già subito attacchi (coronati da successo) contro i suoi account Twitter e Pinterest. E anche il direttore dell’FBI, James Comey, ha ammesso di coprire la propria telecamera: sa che è un rischio reale perché l'FBI e il britannico GCHQ usano già questa tecnica.
Anche una persona comune, non legata alla sorveglianza governativa o a grandi interessi economici, può trovarsi in un guaio per non aver tappato la telecamera del computer, perché esistono specialisti in estorsioni via webcam. La vittima non sa di essere ripresa e finisce per fare davanti alla telecamera qualcosa di privato e imbarazzante: il criminale la registra, per poi contattare la vittima minacciando di pubblicare le immagini se non viene pagato un riscatto. Lo sa bene Cassidy Wolf, all’epoca Miss Teen USA, ricattata da un criminale che era riuscito a fotografarla nuda tramite la sua webcam.
Il consiglio pratico è spegnere e chiudere il computer quando non è in uso e coprire la webcam con un adesivo facilmente rimovibile. Per il microfono, invece di tapparne il foro del connettore con del nastro adesivo è meglio inserire uno spinotto per cuffie non collegato a delle cuffie: questo di solito disabilita il microfono integrato, anche se in alcuni modelli di computer, per esempio nei Mac, è possibile modificare questa disabilitazione via software.
SITUAZIONI DIVERSE, MECCANISMI ANALOGHI. Pensate alle dichiarazioni cialtrone di molti politici, ai tweet gaglioffi, ai commenti scorretti e offensivi: Donald Trump ci ha costruito sopra un successo inimmaginabile perfino per i media che l’hanno inconsapevolmente alimentato, specie agli inizi. Ma anche dalle nostre parti esistono fenomeni analoghi, no? E bisogna davvero dar conto di ‘sta roba, o possiamo evitare di cadere nella trappola dei politici che usano la cialtroneria e lo scandalo come amplificatore della notorietà? Del resto è una trappola vecchia e consumata e dai, caderci è un po’ da polli.
USCIRE DAL PARADOSSO DELLA VISIBILITÀ. In caso dei cialtroneria, se davvero si vuole condannare, il modo migliore per farlo è: silenziosa indifferenza. La stessa silenziosa indifferenza è anche, per esempio, la punizione migliore per la pubblicità sessista, che non merita di guadagnarsi spazi gratuiti sui media, o di essere rimbalzata all’infinito in rete: ehi, è proprio quello il suo obiettivo! Lo scrivevo tempo fa: alcune aziende spregiudicate usano lo scandalo e la provocazione come amplificatori dell’investimento, secondo la vecchia logica del “purché se ne parli”. Meglio boicottare i prodotti che ri-pubblicare la campagna su Facebook, anche se lo si fa per condannarla.
DUE PICCOLE STORIE VERE. Uscire dagli automatismi della notizia rilanciata a ogni costo non è facile. Eccovi due storielline semplici ma vere. La prima: qualche anno fa mi chiama il TG1: “le mandiamo una troupe!”. Vogliono un commento da inserire nell’edizione delle otto di sera, all’interno di un servizio su uno spaventoso spot sessista prodotto da un’ignota azienda di confezioni. “Guardi che io posso anche dirne peste e corna, ma quelli comunque stappano una bottiglia di champagne se finiscono al TG1. È uno spazio che non ha prezzo!”, protesto. Non c’è verso: il servizio, con un altro commento, esce. Sono certa che lo champagne sia stato stappato. La seconda: in tempi più recenti bisticcio lungamente per telefono con il giornalista di un grande settimanale nazionale perché mi rifiuto di fare un’intervista su quanto comunica bene il terrorismo islamico. “Scriverò che lei non vuole rispondere!”, minaccia. L’articolo esce comunque, l’abilità comunicativa dei terroristi viene celebrata, e l’unica consolazione è che i terroristi non bevono champagne.
FORME ALTERNATIVE DI COMUNICAZIONE. Il silenzio (ce l’ha ricordato papa Bergoglio nella sua visita ad Auschwitz) è comunicazione. E può essere una forma di comunicazione di enorme potenza, quando le parole risultano inadeguate a esprimere l’indicibile. A volte stare in silenzio è la cosa migliore da fare. Anche l’indifferenza comunica: dice “non sei rilevante, non meriti la mia attenzione, non vali niente”. È un messaggio durissimo, ed è meglio non trasmetterlo mai nelle relazioni interpersonali. Ma può essere la risposta più efficace e onesta a un’offesa gaglioffa o a un messaggio furbacchione, che cerca solo di rendersi visibile. Che fare, però, quando non si può né stare in silenzio né manifestare indifferenza? Tocca praticare l’esercizio più difficile: ragionare, moderarsi, distinguere, tenere sotto controllo le emozioni, procedere con cautela, ridurre gli automatismi, pensare alle conseguenze e scegliere responsabilmente quel che si può (o non si può) dire o mostrare.