Intervista sul Resto del Carlino del 9 Novembre 2018 al presidente Aiart Marche Lorenzo Lattanzi a proposito di un increscioso fatto di cronaca: video hard realizzati e scambiati nelle chat da minorenni.
«C’è un vero abisso educativo, la colpa non è dei telefonini»
«FACILE dare la colpa al telefonino. Sarebbe da chiedersi piuttosto perché i ragazzini sentono il bisogno di filmarsi, perché hanno esperienze sessuali così precoci. La colpa non è del dispositivo, ma umana».
Parla di «abisso educativo» da parte degli adulti, il presidente regionale dell’Aiart, Associazione cittadini mediali, Lorenzo Lattanzi, di Macerata. È anche un insegnante, oltre che un padre. Ha vinto l’edizione 2018 del premio Giannatelli, riconoscimento che premia la migliore tesi di dottorato di ricerca nell’ambito della media education con la tesi «Ripensare l’educazione nell’era digitale». L’Aiart è impegnata in rete con altre realtà e collabora con la polizia postale.
Quali sono i pericoli che i figli possono correre sui social?
«Sono legati al fatto che i ragazzi sono molto abili nell’uso degli strumenti digitali e i genitori si autoassolvono, hanno un atteggiamento rassegnato, come se i figli fossero «predisposti». Bisognerebbe invece abituare i bimbi, sin da piccoli perché poi nell’adolescenza diventa più complicato, a raccontare e condividere le esperienze mediali con gli adulti, non in modo morboso né con un atteggiamento moralistico, ma con naturalezza. I genitori devono partecipare».
In che modo?
«Ad esempio, se un bambino sta guardando un video demenziale e ride, occorre chiedergli «cosa ci trovi di divertente, perché ti fa ridere? ». Bisogna parlare in famiglia e creare un circolo virtuoso. Non possiamo impedire che questi video gli arrivino, perché anche filtri o parental control possono essere aggirati nel momento in cui un amichetto gli fa vedere un filmato; ma possiamo evitare che nostro figlio contribuisca a diffonderlo. I ragazzini si lasciano intrattenere, non hanno uno sguardo critico. Noi dobbiamo aiutarli a svilupparlo».
Come può intervenire la scuola?
«La scuola è in affanno e la famiglia ancora di più. Ad esempio si
potrebbero proporre ai ragazzi temi sulle proprie esperienze mediali, del tipo «Chi è il tuo Youtuber preferito? Perché passi ore a guardarlo? », sempre però senza un atteggiamento moralistico».
Prima il cellulare era il regalo della Cresima, adesso della Comunione…
«Sarebbe giusto che l’introduzione avvenisse per gradi, a 14-15 anni, ma capisco anche che non possiamo far diventare i nostri figli «mosche bianche». Si potrebbe partire con un tablet condiviso e un numero WhatsApp collegato».
Ma se nemmeno gli adulti sono educati al senso critico e hanno senso del pudore, la partita è persa?
«No, non è detto, cerchiamo di lavorare su questo. È necessario un salto generazionale, passando da spettatori a spett-attori, cioè dobbiamo essere noi a produrre, con proposte alternative, da testimoniare sulla rete. È un lavoro duro».
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