Quando si leggono notizie come quella riguardante l’arresto del trapper criminale Baby Gang, insieme al collega Simba la Rue ieri a Milano, la tentazione dello sciacallaggio mediatico è forte. Si moltiplicano articoli di denuncia che raccontano la “vita spericolata” del cantante – all’anagrafe Zaccaria Mouhib - che già da adolescente aveva conquistato una certa fama tra i coetanei per aver collezionato svariati arresti ed essere uscito ed entrato più volte in comunità per un recupero che, a quanto pare, non è mai avvenuto. Io stesso da tempo mi trovo a denunciare, nei comunicati e negli incontri formativi che spesso tengo a Scuola come pure in altri contesti meno formali, la pericolosa tendenza con cui il mondo della comunicazione tende a normalizzare, se non addirittura a premiare, violenza, volgarità, oscenità e gusto per la sopraffazione dell’altro e per il macabro. In queste ore sono molti gli articoli che denunciano la sostanziale inerzia del mondo educativo e del mainstream mediatico rispetto a contenuti che già potevano suonare come campanello d’allarme in questo come in molti altri casi: ostentazione nel consumo e nello spaccio della droga, pareti adornate con simulacri di armi che fanno da sfondo ai video delle canzoni o dei messaggi che si inviano dai social che oggi sono il mezzo con cui si diffondono principalmente, come quelli contro gli agenti e i giornalisti: «Giornalisti pezzi di m***a, sbirri infami, polizia associazione mafiosa, faccio più soldi di voi, il vostro stipendio me lo mangio a pranzo».
Ad una osservazione smaliziata dei video musicali di cantanti molto più famosi di Baby gang ci si accorge che messaggi simili, magari inseriti in maniera più subdola, sono davvero diffusi, come da tempo denuncia, inascoltato, l’amico Marco Brusati nel suo blog "Dire oltre". Allora la tentazione di dare la colpa alle canzoni, a certa musica o alle piattaforme che ne consentono la diffusione è davvero forte, ma rischia di essere fuorviante. Si rischia di cadere nel cosiddetto “determinismo” che porta a ritenere erroneamente che a determinare scelte e comportamenti siano i contenuti o addirittura i dispositivi medial; quasi fossimo tutti delle marionette manipolabili dai poteri occulti della comunicazione. Si tratta effettivamente di una prospettiva ingannevole, che porta gli adulti all’autoassoluzione e all’individuazione di capri espiatori che spesso approfittano di tanto sdegno per moltiplicare visibilità, popolarità e diffusione.
Eppure cercando un po’ sul web, che può diventare anche un grandissimo strumento utile ad educarsi per educare, si possono ritrovare le interviste rilasciate tempo fa dal padre di Baby Gang in cui candidamente alle domande incalzanti dei giornalisti risponde stupito «Le canzoni che canta mio figlio sono canzoni che cantano tutti gli adolescenti. Non è solo lui che pubblica certi contenuti!».
Ecco allora probabilmente il vero punto della questione, come scrive l’amico Eugenio Lampacrescia dal suo profilo Facebook «È emergenza educativa oramai troppo seria. Sono necessari adulti autorevoli che siano da modello solido. Non “piacioni” del tipo “Tutto quello che fai va bene. È sempre ok come sei”. È necessario scoprire insieme talenti e limiti in modo equilibrato ed anche chiaro. Senza paura di essere scomodi, quando è utile.» E penso sia utile, a questo punto, scendere dal piedistallo dell’analista (che non mi appartiene) per raccontare una semplice esperienza che vivo quasi quotidianamente nel mio lavoro. A scuola mi capita spesso di rimproverare duramente qualche alunno, talvolta arrivo persino a farlo piangere. Eppure, il più delle volte, la giornata scolastica si conclude con la/o stessa/o bambina/o che viene alla cattedra e chiedendo scusa mi dice «So che quello che mi hai detto è per il mio bene. Grazie maestro, anch’io ti voglio bene!». Forse allora la vera normalizzazione che dobbiamo contrastare insieme è quella dell’assenza dell’adulto capace di educare. Non conta se in maniera impopolare o politicamente scorretta, ma sincera e sempre orientata al bene, al vero e al giusto.