Il nostro comportamento all’interno dei social media mostra a noi tutti che, come le scienze comportamentali dimostrano nelle più recenti ricerche, siamo più mossi dalle emozioni che dalla ragione,
che preferiamo mantenere intatti nostri pregiudizi anche se ciò a cui crediamo si dimostra poi totalmente errato, che siamo sempre meno disponibili al confronto e abili haters davanti ad uno schermo.
In poche parole: ascoltiamo e comunichiamo non per capire, ma solamente per rispondere e si entra in contatto con l’Altro in quanto “diverso”. Alcuni sociologi, analizzando la dimensione comunitaria nel nuovo scenario digitale, riconoscono la nascita di nuove forme di legami che definiscono “neotribali”. Le modalità per sentirsi vicino ad una persona ruotano esclusivamente attorno ad uno stato emozionale comune: la simpatia.
Tali formazioni chiuse, autoreferenziali, non hanno progetti comuni, non diffondono conoscenza, non sono classificabili come “intelligenze collettive e connettive”, ciò che le muove è il semplice desiderio di sentirsi parte di un gruppo dove tutti la pensano allo stesso modo; dunque non c’è confronto, ognuno vive tranquillo con le proprie verità nella propria “bolla”.
L’utilizzo inconsapevole dei social in questo senso, rischia di essere utilizzato per costruire strategie difensive per deviare dall’eticità, per sfuggire al processo di negoziazione e condivisione necessario (per sua definizione) in un processo comunicativo-relazionale.
Hate speech: esempio di comunicazione violenta
E’ necessario individuare sempre una “situazione limite” in ogni cosa e cioè capire quando l’utilizzo dei social, in questo caso, nutre o danneggia una società. Ogni giorno ci imbattiamo anche per sbaglio in espressioni verbali violente in Rete (hate speech).
L’odio verbale online rappresenta una realtà che non si limita solamente alla dimensione virtuale, ma ha effetti concreti anche nella vita offline. I social network rischiano sempre più di trasformarsi in ambienti tossici, in campi di battaglia, “far west virtuali” dove domina il conflitto, dimenticando cosi l’esistenza di un’etica, di regole conversazionali, nei processi comunicativi online ed offline.
L’odio sul web nasce dalla realtà e lì poi ritorna.
Bullismo, omofobia, odio politico e religioso, tutto questo diventa “cyber” e si trasforma in violenza verbale online, in azioni d’odio, le cui vittime sono spesso sconosciuti.
Non esiste più, l’odio di una persona contro l’altra, ma ci sono migliaia e migliaia di persone che si coalizzano e condividono espressioni d’odio nei confronti di un singolo.
Questo avviene perché la tecnologia ha annullato le distanze ed ha consentito anche simili comportamenti che appaiono nuovi, quantomeno nella loro ricorrenza. Internet ha equiparato le discussioni, basta che l’argomento diventi un topic di tendenza e arriva ad assumere un ruolo di primaria importanza nella panoramica online. L’istituzionalizzazione dell’odio porta ad un aumento del livello di tolleranza che è facile da raggiungere, ma non da rimuovere e il rischio è quello di abituarsi a certi tipi di espressioni. Esiste un “mercato dell’odio”: l’ hate speech crea flusso, interazione, diventa “moneta relazionale” e quindi, crea profitto e consenso. La sua diffusione avviene attraverso tre fasi principali: volontà, incitamento e violenza. La domanda lecita a questo punto è: Come ne usciamo?
Potremmo considerare tre soluzioni efficaci: diritto, tecnologia ed educazione. Capire le dinamiche interne al web, ritornare a ri-costruire le regole della comunicazione umana, saper riconoscere i reati d’opinione ricreando un quadro normativo di riferimento, potrebbero essere buone soluzioni per ritornare a confrontarsi civilmente anche all’interno delle piattaforme digitali. L’hate speech è la nuova battaglia (cyber)culturale.
Tutto ciò è ancora più evidente se consideriamo il rapporto immigrazione-informazione e nuove pratiche mediali. I processi migratori, se da sempre costituiscono un fattore di grande importanza sulle strutture e sulle dinamiche complessive dell’organizzazione sociale, da più di trent’anni hanno visto crescere la loro rilevanza e il loro impatto per essere al centro dei processi di globalizzazione che investono anche il nostro